L’uomo mostra fin dall’antichità, la necessità di veicolare messaggi. Uno dei metodi arcaici ma efficaci a questo fine è stato il mito.
Mito deriva dal greco mythos che tradotto significa “parola, discorso”. Fra i primi tentativi di darsi spiegazioni sull’origine del mondo, sul significato della nostra presenza sulla terra, sui misteri che caratterizzano la nostra esistenza come ad esempio le emozioni, i sentimenti, la morte, troviamo appunto queste narrazioni tramandate oralmente nelle generazioni. Ancor prima, altri mezzi di veicolazione di messaggi sono state le immagini. La modalità visiva ha l’immediatezza dalla sua parte, caratteristica per la quale probabilmente non è stata mai accantonata: pitture, sculture e successivamente fotografie sono mutate di epoca in epoca riuscendo a racchiudere e a trasmetterci i concetti prominenti di quell’epoca stessa.
I mezzi che abbiamo a disposizione nel ventunesimo secolo ci permettono di catturare l’istante: con il mio smartphone posso portare ovunque un tramonto, il mio animale domestico, il mio partner. Non solo, posso cercare di trasmettere l’emozione di un momento a migliaia di amici connessi ad un social network, semplicemente scattandomi una foto. Non un autoscatto ma un selfie. Il selfie potrebbe rappresentare un nuovo modo di veicolare un messaggio: “sto bene”, “mi annoio studiando”, “amo il mio cane”. La condivisione è importante per stare in relazione con l’altro, per sapere se veniamo apprezzati, e,perché no, per trarne gratificazione.
Talvolta questo desiderio di condivisione su piattaforme che non sono reali ma realtà virtuali, prende il sopravvento. È il caso delle 259 vittime dei selfie. Dal 2011 al 2017, come riporta un articolo di ANSA, ci sarebbero state almeno 259 persone che hanno perso la vita mentre cercavano di scattarsi una foto estrema. Annegamento (la maggior parte), cadute, incendi, foto troppo vicini a treni in corsa tra le cause di queste morti. Dall’articolo apprendiamo inoltre che l’età media delle vittime è 23 anni.
Giovani e belli stroncati da una morte così assurda. Giovane e bello era anche Narciso nella versione del mito narrata da Ovidio. La madre di Narciso si rivolse all’indovino Tiresia perché preoccupata per l’avvenire del suo bambino. Tiresia la mise in guardia sul fatto che Il suo bambino sarebbe diventato anziano solo se “non avesse mai conosciuto se stesso”. Narciso crebbe in straordinaria beltà facendo innamorare chiunque incontrasse sul suo cammino. Un giorno spezzò il cuore alla ninfa Eco, che respinse in maniera brutale. Gli dei vendicarono la ragazza facendo incontrare Narciso con se stesso: ammaliato dal suo riflesso in una pozza d’acqua si lasciò morire quando si rese conto che il volto riflesso era il suo.
Come Narciso, le giovani vittime dei selfie sono state vittime della propria immagine.
La voglia di trasmettere un’emozione o forse il desiderio di essere gratificati con numerosi like per identificarsi con la grandiosità dell’immagine che avrebbero condiviso, ha posto fine alla vita di questi ragazzi. Ad oggi è meglio vivere bene la propria vita virtuale a scapito di quella reale? Quanto può costare mandare in onda i nostri momenti migliori? Esiste una ricerca dell’identità basata sull’immagine che diamo di noi? Possiamo perderci nel gap che esiste tra l’immagine che abbiamo di noi e quella che pubblichiamo per i followers?
Sono solo alcune delle domande che possono scaturire da una triste notizia come una morte per selfie.